🤔 Perché il Corriere posta cringe?
Una modesta (ma lunga) proposta sull'uso dei social da parte dei giornali
Cos’è una notizia?
Provare a rispondere a questa domanda è diventato un esercizio sempre più interessante.
Fino a qualche tempo fa la risposta presupponeva il tentativo di assumere il punto di vista di chi le notizie le produceva.
È comprensibile: l’attore determinante nel processo di definizione e consumo delle notizie, in un contesto di competizione relativamente limitata, era l’istituzione che le produceva e distribuiva1. Il pubblico in questa dinamica aveva scarso margine per influenzare il processo.
Ma con il definitivo tracollo dei canali tradizionali di accesso alle notizie e il trionfo dei canali digitali abbiamo visto un cambio di paradigma significativo2.
Il ruolo delle istituzioni (giornali, canali tv, canali radio) che regolavano l’accesso alle informazioni si è modificato, e ampiamente ridotto.
Nel 2023 internet è diventato il principale mezzo di informazione per gli italiani3, superando per la prima volta la televisione.
In questo contesto, tra quelli che oggi si informano online, il 20% lo fa principalmente tramite social network, il 17% tramite motori di ricerca, l’11% sui siti/app dei giornali, il 7,6% sulle testate giornalistiche online (es. Fanpage).
A questa frammentazione digitale si aggiunge la variabile della multicanalità del consumo di news.

Data questa radicale trasformazione dell’esperienza di consumo delle news, è naturale che gli studi oggi si concentrino sempre di più sul modo che ha il pubblico di definire cos’è una notizia, per tentare di far emergere i comportamenti, le abitudini e le convinzioni che portano a preferire una fonte, un canale o una tipologia di contenuto.
Ma quindi cos’è una notizia oggi?
In un ecosistema informativo frammentato, multimediale e multimodale, in cui il 58% delle persone è preoccupato di non saper distinguere un’informazione reale da una falsa4, è necessario provare a riportare l’attenzione dei produttori di news su ciò che li ha resi protagonisti.
Cosa definisce, per chi consuma informazioni, una notizia? Cosa distingue una fonte attendibile da una inaffidabile?
Un’indagine del Pew Research Center, condotta sul pubblico americano, ci aiuta a rispondere.
Riporto alcuni tra i risultati più interessanti:
Definire cosa sia una notizia è diventato sempre più un’esperienza personale e personalizzata. Le persone decidono cosa sia una notizia per loro e a quali fonti affidarsi in base a diversi fattori, tra cui la propria identità e i propri interessi5.
La cronaca politica e gli aggiornamenti dai fronti di guerra, le cosiddette hard news, sono riconosciute con un vasto consenso come “notizie”.
La maggioranza delle persone intervistate ritiene che le news dovrebbero essere fattuali (dunque, sarebbero tagliate fuori tutte le pagine d’opinione), il più aggiornate possibile e davvero significative per la società, qualsiasi cosa significhi.
Allo stesso tempo, però, il 55% degli intervistati ritiene di una qualche importanza il fatto che le news riflettano e condividano i propri valori.
Le persone spesso non amano le notizie, ma dicono di averne bisogno.
La definizione di cosa sia una notizia si sta facendo sempre più sfumata.
La notizia è una combinazione di ciò che hai bisogno di sapere, ciò che vuoi sapere e ciò che trovi interessante e che magari non sapevi nemmeno di voler sapere.
David Folkenflik, media correspondent, NPR News
Gli analisti hanno poi chiesto agli intervistati da quali fonti fosse più probabile ricevere informazioni considerabili come notizie6.
Un articolo su un giornale e un articolo pubblicato da una testata giornalistica su X sono stati più spesso considerati notizie rispetto a contenuti provenienti da un conduttore televisivo, da una persona su YouTube o da amici.
I contenuti social sono generalmente considerati meno affidabili – e quindi meno simili a una “notizia”.
Le notizie sui social
Chi si informa online, in buona parte, lo fa attraverso i contenuti condivisi sulle piattaforme social. Ma le notizie, su queste piattaforme, non godono di ottima salute. Perché?
Sempre più paper e report ci danno un quadro abbastanza chiaro dei motivi per cui le persone scelgono di stare sui social.
Ci viene di nuovo in soccorso il Pew Research Center con il report How Americans Navigate Politics on TikTok, X, Facebook and Instagram.
Anche se, intuitivamente, chiunque potrebbe misurare il polso delle proprie abitudini di consumo per capire quanti e quali stimoli cerchiamo sui social, la tabella qui sotto accerta che, a eccezione del pubblico (americano) di X, soltanto il 26-36% delle persone intervistate frequenta queste piattaforme per cercare attivamente di rimanere aggiornato. Non è poco, ma neanche molto.
Una maggioranza cospicua frequenta invece le piattaforme per essere intrattenuta e rimanere aggiornata sulla vita di amici e conoscenti. Persino i consigli all’acquisto superano, per interesse, le notizie.
Il Digital News Report Italia raccoglie alcuni dati riguardanti la situazione nel nostro paese. I risultati, come si vede dalla tabella qui sotto, sono paragonabili e altrettanto istruttivi.
Mentre Facebook si attesta al 36%, tutte le altre piattaforme risultano utilizzate a scopi informativi soltanto dal 20% degli intervistati.
Un dato interessante che viene registrato da questo report è che l’interazione con le notizie è significativamente diminuita: solo il 71% compie oggi una qualche forma di interazione (era il 77% nel 2024), con un calo marcato di commenti e condivisioni sui social e un declino anche nelle conversazioni di persona. Restano più coinvolti i giovani e chi si colloca a sinistra.
Queste evidenze ci costringono a fare alcune considerazioni sul rapporto che chi consuma news ha con questo prodotto informativo, in questi ambienti:
Sembrerebbe chiaro ora perché, come riportato, «le persone non amino le notizie, ma dicano di averne bisogno»: la maggior parte delle persone è esposta alle notizie mentre cerca altro, vuole essere aggiornata su altro, è in uno stato mentale diverso da quello richiesto dal consumo consapevole di news, eppure, pur soffrendo questa distonia, probabilmente sente di dover in qualche modo prestare attenzione, forse per dovere civico7, chi lo sa.
Il fatto che le notizie siano disseminate nel flusso di aggiornamenti i più disparati, per tono e contenuti, costringe l’utente di queste piattaforme a un continuo lavoro di certificazione del contenuto prima di poterlo riconoscere come “notizia”, rendendo più faticosa la fruizione del contenuto e più difficile distinguere ciò che è valido da ciò che non lo è. Per cui poi spesso ci si accontenta di qualcosa che assomiglia a una notizia.
Come decidiamo cosa è notizia sui social?
Dal report Pew possiamo ricavare alcune indicazioni sul processo di attribuzione di valore informativo ai contenuti che vediamo scorrere sui social.
I partecipanti hanno generalmente dichiarato di fidarsi di testate affermate e riconoscibili e di essere più propensi a considerare come notizie le informazioni provenienti da queste fonti anche nel contesto dei social media.
Alcuni hanno detto di essere più inclini a considerare come notizia qualcosa nel loro feed se (anche esteticamente) sembrava provenire da una testata giornalistica.
Titoli in grassetto e termini come “BREAKING” tendevano a far sì che i partecipanti considerassero più facilmente i post nei loro feed come notizie.
Inoltre, i partecipanti spesso hanno espresso interesse, o almeno prestato maggiore attenzione, ai contenuti che includevano immagini o video. Vedere qualcosa con i propri occhi, come contenuti che presentano prove documentate o collegamenti a fonti, sembra rendere l’informazione più simile a una “notizia”.
Il Digital News Report Italia testimonia che anche i dati italiani seguono questa linea:
Anche sui social il 52% degli utenti presta principalmente attenzione alle fonti professionali (testate e giornalisti tradizionali e nativi digitali), il 37% si affida a creator e personalità online e il 28% a contributi di persone comuni.
«Se pubblicato da ABC News, considererei che si tratti di una notizia semplicemente perché è pubblicato da un’organizzazione giornalistica». – Uomo, 20 anni
«La considererei una notizia perché proviene direttamente dalla CBS ed è un account verificato». – Donna, 20 anni
In qualche modo dunque viviamo ancora in un mondo in cui i giornali, o comunque i canali d’informazione istituzionali e i loro rappresentanti, incarnano l’idea platonica della notizia, nonostante l’imperante disintermediazione.
Un breve a parte: un’ipotesi
La mia interpretazione è che, in barba proprio a questa disintermediazione, su temi complessi, magari spiacevoli e indigesti, ma forzatamente centrali (come la cronaca politica), almeno per quella parte di pubblico che è interessata alle notizie, la necessità di avere ancora un filtro competente (che sia una testata, un creator fidato o un’istituzione pubblica o privata che per qualche motivo si intestasse questa missione) che spieghi, valorizzi e organizzi le informazioni resiste e resisterà. Che sia profittevole o meno.
Il mio sospetto è che, nella condizione di profonda instabilità geopolitica che attraversiamo, gli editori a trarre maggiori benefici in termini di attenzione, almeno nel breve periodo, siano quelli televisivi. La tv è l’ambiente dove più facilmente, per motivi storici e tecnici, gli utenti sanno segmentare la loro esperienza di fruizione per ottenere precisi effetti informativi.
Esempio: Alle 8 so che c’è il Tg La7, so che è una fonte certificata, so che potrò avere un quadro generale della situazione in un linguaggio più o meno accessibile e in tempi accettabili. So anche, tendenzialmente, come la fonte si posiziona in termini ideologici rispetto a me e, soprattutto, rispetto alle altre fonti.
Per ottenere lo stesso risultato sul web dovrei o passare dal sito di un giornale ( la cui esperienza di lettura, secondo me anche nel migliore dei casi, non è altrettanto immediata) o sperare in un creator o una pagina fidati che intercettino il mio preciso bisogno informativo con un contenuto che però spesso è, per necessità tecniche di alcune piattaforme (esclusa YouTube), poco più che introduttivo a un argomento.
Su YouTube posso ottenere risultati anche migliori rispetto a quelli dei canali tradizionali, ma per mia esperienza, la soglia d’ingresso è molto alta: è richiesta dimestichezza quotidiana con la lingua inglese, bisogna navigare un sistema frammentato di canali di altissima qualità dispersi però in una marea di contenuti di minore qualità ma più tempestiva produzione, la certificazione della bontà dell’informazione che ricevo è spesso a mio carico ed è necessario combattere l’abitudine di utilizzo mista (intrattenimento, informazione, approfondimento, istruzione, ecc.) che ibrida e confonde i contenuti proposti dalla piattaforma.
Ma torniamo ai social.
Dobbiamo parlare di TikTok
TikTok è la piattaforma che cresce più velocemente tra le piattaforme social e quella su cui passiamo più tempo.
I dati del Digital 2025 di We Are Social ci dicono che nel novembre 2024 un utente medio Android passava su TikTok quasi 30 ore, contro le 17 di YouTube e le 15 di Instagram e Facebook.
L’app è diventata anche una componente discretamente importante della nostra dieta informativa: le persone che dicono di usarla per informarsi sono passate dal 2% al 10% in soli cinque anni8. Dato che però arriva al 27% se si prende in considerazione soltanto la fascia d’età compresa tra i 18 e i 24 anni9 e che porta la piattaforma al secondo posto nella classifica delle preferenze dei più giovani, seconda soltanto a Instagram con il 52%.
TikTok poi è interessante perché potrebbe rivelarsi un laboratorio dove si sperimentano delle modalità nuove di pensare le notizie.
Il Digital News Report Italia prende in esame dettaglio le preferenze nel consumo di notizie relative a ciascuna piattaforma e conclude che «su Instagram e TikTok la maggiore esposizione a contenuti visuali10 e l’attrattiva per formati più leggeri spostano l’equilibrio verso i creator che si occupano principalmente di notizie e i giornalisti nativi digitali. Le testate tradizionali restano comunque presenti con il 38% su Instagram e il 32% su TikTok, ma il confronto con la componente “creator” mette in luce la forza di un’informazione più sperimentale e orientata alle community».
Anche i dati internazionali vanno nella direzione di una crisi di interesse verso l’offerta social delle testate tradizionali. Il Reuters Digital News Report 2025 indica infatti TikTok come la piattaforma in cui si dà meno credito alle istituzioni giornalistiche in assoluto.
Il paradosso di questa situazione è che, nonostante la crescente fortuna della piattaforma e dei suoi contenuti, anche in seno al pubblico delle notizie, cresce anche la sfiducia verso il tipo di notizia che ci si può trovare.
Il 46% degli intervistati italiani considera TikTok la piattaforma a più alto rischio disinformazione. E anche le altre piattaforme social non se la passano benissimo.
Sembrerebbe dunque che, nonostante il fatto che il pubblico (internazionale e italiano) si fidi tendenzialmente poco delle news che trova sulle piattaforme social, si limiti a queste per soddisfare i propri bisogni informativi. Perché?
La lettura del fenomeno che propongo imputa alle testate giornalistiche la colpa di aver adottato dei modelli di comunicazione digitale della propria offerta informativa spesso completamente sbagliati, asserviti a logiche incoerenti con i loro obiettivi di business e reputazionali.
Non sono pensati per questo
Una famosa battuta del film All The President’s Men vuole che per sapere la verità su un fenomeno basterebbe «seguire i soldi».
Il rapporto di forza tra social e giornali è da sempre ampiamente sbilanciato a favore delle piattaforme digitali.
Abbiamo visto come i fatturati 2024 degli editori siano dipesi, a livello globale, per il 15,8% dagli accordi pubblicitari su canali digitali11.
Ma il traffico ai siti non origina dalle piattaforme social, se non in minima parte. Almeno a quanto si può ricavare dai dati disponibili pubblicamente.
Ecco come è cambiato il traffico da referral tra novembre 2023 a novembre 2024 per 3.750 siti, secondo i dati della società di analisi Chartbeat:
Il traffico diretto è diminuito dal 23% al 20% della quota totale di traffico verso i siti degli editori, anno su anno.
Il traffico da Google Discover è aumentato dal 22,8% al 25,7%.
Il traffico da Google Search è aumentato leggermente dal 14% al 14,9%.
Anche il traffico da Bing è aumentato marginalmente dallo 0,5% allo 0,6%.
Il traffico da Google News è diminuito leggermente dall’1,7% all’1,5%.
Il traffico da Facebook è diminuito dal 6,4% al 4%.
Il traffico da X è diminuito dallo 0,6% allo 0,4%.
Yahoo Search, Instagram, Pinterest, Reddit, Threads, YouTube e LinkedIn sono rimasti più o meno stabili. Tutti hanno inviato una quota marginale (meno dello 0,5%) di traffico ai siti degli editori.
Di solito le testate non rilasciano informazioni sull’origine delle visite al proprio sito, quindi questi dati sono importanti per farsi un’idea circostanziata dei trend globali. E in Italia?
Andando a leggere i dati similarweb.com per le più importanti testate italiane possiamo notare una maggiore dipendenza dal traffico diretto (spesso oltre o attorno al 50% del traffico) e dalle ricerche organiche.
Alcuni esempi:
Corriere.it: diretto 49%, ricerca organica 41%, social 6,3%
Repubblica.it: diretto 55%, ricerca organica 35%, social 6,5%
Gazzetta.it: diretto 58,3%, ricerca organica 35,4%, social 4,2%
Ansa.it: diretto 51,4%, ricerca organica 39,8%, social 6,4%
Ilfattoquotidiano.it: diretto 49%, ricerca organica 39%, social 9,7%
Ilgiornale.it: diretto 44,3%, ricerca organica 47,3%, social 5,2%
Tgcom24.mediaset.it: diretto 50%, ricerca organica 41,2%, social 5,6%
Ilpost.it: diretto 55,4%, ricerca organica 36,9%, social 5,4%
L’unica testata (tra quelle analizzate) che fa meglio di così (in questo campo) è Fanpage.it: diretto 13,2%, ricerca organica 65%, social 20%.
I dati di similarweb non sono sempre perfetti, però incrociandoli con i dati globali di Chartbeat rimane evidente, anche al di là di margini di errore molto generosi, che i social media siano una fonte esigua di traffico.
Ci conforta circa la bontà di queste conclusioni il Reuters Digital News Report 2025 che chiosa:
Da diversi anni ci chiediamo dove le persone prestino attenzione quando usano i social network e abbiamo scoperto che i media tradizionali sono quando va bene messi in difficoltà – e nel peggiore dei casi superati – da creator e personalità online, anche per quanto riguarda le notizie.
Questa tendenza è evidente anche questa volta nei dati aggregati di tutti i 48 mercati.
I creator ora giocano un ruolo significativo in tutte le piattaforme tranne Facebook, con i media tradizionali che ricevono meno attenzione su TikTok. Non sorprende, dato che gli editori hanno avuto difficoltà ad adattare i contenuti giornalistici a uno spazio più informale e temono di cannibalizzare il traffico verso i propri siti pubblicando su una rete che non è pensata per il traffico di referral.
La scoperta dell’acqua calda
Già nel 2023, Digiday pubblicava un articolo intitolato Publishers move past seeing social media platforms as traffic drivers.
Nell’articolo si possono leggere alcune dichiarazioni di direttori responsabili della comunicazione social di alcune importanti realtà giornalistiche che testimoniano una piena consapevolezza della crescente divergenza fra gli obiettivi di business della testata (almeno per quanto riguarda quelli legati a guadagni diretti – es. visite al sito o abbonamenti) e quelli della loro comunicazione digitale.
«Vogliamo generare traffico. [Ma] non tutte le piattaforme sono naturalmente adatte a portare traffico», ha dichiarato Travis Lyles, vicedirettore dei social media del Washington Post. «Non ci aspettiamo che una piattaforma come Instagram mandi una grande quantità di persone sul nostro sito, ma la consideriamo invece uno strumento naturale per costruire il brand e un luogo dove possiamo davvero interagire con un pubblico che altrove non entra in contatto con noi».
«Anche della piattaforma che ci porta benefici oggi dovremmo diffidare domani. Il problema principale dei social media, in generale, è che non li possediamo noi. In un certo senso, stiamo giocando a un gioco che non controlliamo», ha detto Lyles. «Quando emerge qualcosa di nuovo, ci chiediamo… Ha senso investirci, tenendo conto delle dimensioni del team? Vale davvero la pena, in termini di ritorno sull’investimento, che qualcuno dedichi anche solo una parte della propria giornata a questa cosa?»
Un approccio all’apparenza pragmatico veniva, forse comprensibilmente, da Vice:
«Non stiamo cercando di indirizzare il pubblico da qualche altra parte», ha detto Katie Drummond, vicepresidente senior delle news globali e direttrice editoriale di Vice. «Il nostro obiettivo è offrire loro contenuti pensati appositamente per quella piattaforma, che li raggiungano proprio lì. Non diamo per scontato che passeranno da TikTok al sito web. Supponiamo invece che passeranno dal nostro TikTok al prossimo TikTok.»
Di questa dichiarazione mi sorprende una cosa: in due frasi si citano tre volte TikTok, una il sito, zero Vice. Poco tempo dopo Vice avrebbe dichiarato bancarotta.
Le cose non sono collegate, ma fanno riflettere, soprattutto se teniamo presente che, nello stesso articolo, Lyles del Washington Post12 sembrava molto meno ottimista sul tema, nonostante il successo del TikTok del Washington Post.
Il problema di questa dichiarazione di Drummond sta nel confondere (apparentemente almeno) un mezzo per un fine: una testata dovrebbe produrre TikTok così ingaggianti da non poterli skippare, non per la crescita del canale TikTok, ma per valorizzare il rapporto che la testata deve costruire con il suo pubblico, ovunque si trovi.
Competere?
Su che cosa si gioca la competizione delle piattaforme sociali con quello che resta dei “legacy media”?
Tre ordini di fattori sono evidentemente importanti.
1. Il successo economico delle aziende coinvolte, gli editori e le piattaforme.
2. Il tempo e l’attenzione che il pubblico riserva alle informazioni di origine giornalistica rispetto ai messaggi che si trovano nelle piattaforme.
3. La rilevanza che il pubblico attribuisce alle informazioni giornalistiche rispetto a quelle che circolano sui social network.Chi può vincere la competizione su questi piani? L’esperienza recente suggerisce che le piattaforme hanno sopravanzato clamorosamente gli editori, almeno per quanto riguarda i primi due fattori: la capacità di generare profitti dimostrata dalle piattaforme non ha paragoni nel mondo editoriale; mentre la quota di tempo e attenzione del pubblico conquistata dalle piattaforme è certamente aumentata a scapito di quella dei giornali.
La domanda a questo punto è chiara: la competizione sul piano della rilevanza è ancora aperta? Se lo è può diventare la base di un rilancio del giornalismo per il prossimo futuro?
Luca De Biase, Il problema della rilevanza del giornalismo, “Tendenze e nuovi scenari per il giornalismo”, Report ODG 2025
Ricapitolando
Le notizie oggi viaggiano (sempre di più) online.
I dati infatti mostrano una crescita tendenziale della penetrazione del mercato delle news da parte dei canali digitali. Questo vale anche per i legacy media. Ad esempio, già oggi per RCS, «i ricavi digitali rappresentano circa il 26,7% dei ricavi complessivi».
La maggior parte delle persone online consuma notizie attraverso le piattaforme social.
La maggior parte delle persone dice di non amare le notizie, ma di averne comunque bisogno.
La maggior parte delle persone è preoccupata dell’attendibilità delle notizie reperite sui social.
La maggior parte delle persone preferisce definire notizie le (e fidarsi delle) informazioni che riceve da contenuti social prodotti da editori riconosciuti.
Eppure solo una minima parte delle persone migra dalle piattaforme social ai siti di news.
Al netto di valutazioni molto complesse circa l’effettiva entità economica della costruzione del marchio dell’editore, non ho trovato indicazioni sulla redditività specifica delle strategie di social content creation degli editori di news.
Credo sia dunque lecito dire che, almeno fino a oggi, gli editori hanno sostanzialmente distribuito gratuitamente su piattaforme in un certo senso concorrenti un prodotto informativo di cui rimangono, se non esclusivi, quanto meno primi detentori, nell’ottica (o la speranza) di consolidare la reputazione del marchio del proprio prodotto editoriale.
Perché questa cosa non funziona
Prendiamo un esempio virtuoso.
Sotto tutti i parametri, il Corriere è di gran lunga la testata italiana di maggior successo in questo momento.
Le vendite del giornale cartaceo, per quanto in costante decrescita, rimangono comunque il doppio di quelle di Repubblica, secondo classificato.
Gli abbonamenti digitali, stando agli ultimi dati ufficiali, sarebbero a quota 685mila, anche se è impossibile sapere quanto siano profittevoli. In ogni caso si tratta della miglior performance per distacco13.
Sulle varie piattaforme social raccoglie qualcosa come 13,6 milioni di follower.
E questi sono, a oggi, i post più popolari del suo canale TikTok:
Questi poi sono solo alcuni post Instagram che hanno catturato la mia attenzione:
Ora, non facciamo troppa ironia. Non ho modo di vedere gli analytics completi della pagina Instagram del Corriere, ma sono sicuro, è deformazione professionale, che i contenuti di maggior successo siano molto più simili a quelli che vedete qui, di quanto non possano a somigliare a cose così.
I social media sono, tutti seppur ciascuno in gradi e modi diversi, la nuova tv generalista. O la continuazione della tv generalista con altri mezzi. Tanto che ci finiranno presto, sulle tv.
Questo non vuol dire però che il successo su queste piattaforme coincida con un successo commerciale o reputazionale. Anzi.
Sfido chiunque a scorrere i feed social del Corriere e trovare qualche contenuto che giustifichi il così ampio distacco che il prodotto giornalistico ha sulla concorrenza (o anche soltanto il suo vantaggio reputazionale).
Per non parlare della quantità di contenuti essenzialmente equivalenti e interscambiabili tra i vari feed social di testate concorrenti: un esempio di seguito.
Qual è la strategia, se c’è, dietro queste scelte di contenuto?
Comprensibilmente (quasi) nessuna testata vuole a oggi produrre contenuti giornalistici di qualità pensati esclusivamente per delle piattaforme concorrenti.
Il tentativo (non so quanto conscio14) del Corriere e dei suoi competitor diretti è quello invece di coprire, con la maggiore tempestività possibile, il più ampio spettro di informazioni, pure informazioni, per sperare di raggiungere il più ampio numero di utenti per ciascuna piattaforma.
La competizione potenzialmente si trasforma in un meccanismo di selezione naturale che potrebbe portare alla sopravvivenza di una sola uber testata giornalistica, riconosciuta come Il giornale, nel senso di giornale unico, che fornisce un po’ tutte le informazioni certificate di cui hai bisogno.
E in qualche modo, forse, il Corriere ci sta riuscendo. Ma tutti gli altri?
Possiamo provare a riassumere perché questa strategia non funziona e non può funzionare per tutti in alcuni brevi punti:
Non ci sono abbastanza persone interessate alle notizie
Il punto va oltre il semplice dato quantitativo. È un problema culturale, prima ancora che numerico. Le notizie richiedono attenzione, tempo, fatica cognitiva. Tutte cose sempre più scarse nell'ecosistema digitale, che premia un tipo diverso di consumo culturale. Le notizie sono, per larghi strati di popolazione, un sottoprodotto accidentale della vita online, non un bisogno strutturato. Pretendere di costruire numerosi modelli editoriali concorrenti su questa esposizione casuale significa ignorare la realtà.
La maggioranza di chi non paga per le notizie non pagherà mai
A oggi soltanto il 9% delle persone paga per le news digitali15. Il 69% di chi oggi non paga afferma che nessuna proposta lo convincerebbe a cambiare idea16. Non è un problema di strategia o di offerta, è un limite strutturale del mercato.
Chi crede che basti "esserci ovunque" per convertire il grande pubblico in lettori paganti si illude. L'unica platea su cui si può lavorare è quella minoranza che cerca un’informazione affidabile, riconoscibile, con un’identità. Il resto continuerà a consumare notizie come si consumano reel e meme: senza impegno, senza fedeltà, senza valore, senza pagare.L’informazione generica non costruisce legame, né valore
La rincorsa a “essere ovunque” e “coprire tutto” genera contenuti piatti, indistinguibili, facilmente replicabili. Se non hai una voce, uno stile, un punto di vista, sei solo un logo intercambiabile. L’informazione generica, almeno nella sua distribuzione online, è la prima che verrà automatizzata e svalutata, e il pubblico, quando si accorge che tutto si assomiglia, semplicemente smette di distinguere, e di fidarsi. E parte di questo pubblico si affiderà a fonti che almeno riescono a intrattenerlo o a fare da veicolo valoriale (es. i creator).Senza contesto, non è una notizia: è solo rumore
Il caos informativo nasce anche da qui: contenuti isolati, privi di cornice e spiegazione, che si confondono con il rumore di fondo. Un titolone su Instagram o una breaking news su TikTok, se privi di contesto, approfondimento e prospettiva, non sono informazione: sono solo stimoli che si dissolvono dopo pochi secondi. Senza contenuto e contenitore insieme, stai solo alimentando il disordine.L’AI può farlo, e presto lo farà meglio
Le piattaforme di generazione automatica di contenuti sono perfette per riassunti, breaking news e aggregazioni standardizzate. Se ci si limita a presidiare le piattaforme con contenuti impersonali, si è già oggi in competizione con l’AI, e con poche chance di vincere. L’unica difesa è alzare il livello: umanità, contesto, analisi, identità, relazione.
Stai regalando valore a chi ti sta smantellando
Il modello attuale è economicamente folle. Gli editori regalano contenuti alle piattaforme che trattengono attenzione e ricavi pubblicitari, lasciando agli editori le briciole, quando va bene. Il paradosso è evidente, eppure continua. Con effetti devastanti sulla sostenibilità economica e sulla credibilità editoriale.
Non sono l’unico a pensare queste cose. Questi sono due dei creator più seguiti e influenti di YouTube, Colin & Samir. Senti cosa dicono intervistati dal Washington Post.
Perché i creator sì (e gli editori no)
I dati ci dicono che i creator guadagnano attenzione17, fiducia e, spesso, anche reputazione dove i legacy media arrancano.
Perché?
Abbiamo visto che nell’attuale ecosistema digitale si accede a una piattaforma social soprattutto per essere intrattenuti. La categoria dei creator è la risposta più semplice del sistema al bisogno di infotainment generalista e generalizzato con bassi costi produttivi e margini operativi sostenibili. (Tanto che anche quando gli editori legacy producono infotainment nativo per i social si affidano a strutture organizzative e mezzi produttivi agili e volutamente non professionali – almeno dal punto di vista tecnico – imitando in tutto e per tutto i creator).
Ma non è solo una questione di soldi.
I creator hanno dalla loro una serie di caratteristiche intrinsecamente più efficaci, proprio perché emerse dalla pratica della condivisione digitale:
Autenticità e trasparenza percepita:
I creator adottano toni e modalità comunicative più dirette e informali, dando l’idea di “metterci la faccia” in prima persona. Questo stile li fa percepire come più autentici e vicini alla “gente comune” rispetto all’impersonalità di un editore legacy. Il Reuters Institute nota che il pubblico, specialmente giovane, «si affida sempre più a individui che dimostrano trasparenza nei propri processi decisionali», qualità che rende i segmenti creator più popolari e credibili agli occhi di molti utenti.
In altre parole, vedere un singolo divulgatore spiegare notizie con onestà e opinioni esplicite risulta più genuino che ascoltare il tono neutro di un telegiornale. Questa ricerca rileva anche che il problema principale non è tanto la credibilità (le testate restano viste come fonti accurate), quanto la capacità di essere “relatable”: molti non credono che i media tradizionali “li capiscano davvero” o che parlino dei loro interessi quotidiani, limitandosi ai soliti temi politici e di cronaca. I creator invece spesso nascono dal basso, condividono la propria prospettiva personale e mostrano il dietro le quinte, generando un senso di trasparenza.Linguaggio accessibile e stile colloquiale:
Diversi studi segnalano che i giovani trovano le notizie tradizionali troppo complicate, noiose o distanti dalla loro realtà. I creator colmano questo gap utilizzando un linguaggio semplice, informale e ricco di riferimenti culturali contemporanei, rendendo le notizie più comprensibili.
Questo approccio facilita la comprensione di temi complessi e attenua quel senso di overload informativo che porta molti ragazzi ad evitare le news tradizionali. Non a caso, organizzazioni come l’ICFJ suggeriscono ai media di usare un linguaggio più accessibile e meno ingessato per riconquistare i lettori giovani.Relazione personale e senso di comunità:
Un elemento chiave del successo dei creator è la connessione personale che instaurano con il pubblico. Spesso i follower sviluppano una sorta di relazione para-sociale con il loro creator di fiducia, sentendolo come un “amico” che commenta le notizie al bar, invece che un’istituzione lontana. Attraverso Q&A, dirette e interazioni nei commenti, gli influencer di news danno voce al pubblico e fanno sentire gli utenti parte della conversazione, anziché semplici spettatori passivi. Questa vicinanza emotiva e di linguaggio è un vantaggio competitivo rispetto alle testate tradizionali, percepite spesso come distanti o elitarie.
Format coinvolgenti (video brevi, storytelling ed entertainment):
Infine, i creator sanno confezionare le notizie in formati più interessanti per il pubblico online. Prevalgono i video brevi, le grafiche colorate, i meme e un tono di voce capace di intrattenere. Ad esempio, su TikTok l’84% degli utenti vede contenuti umoristici su temi di attualità nel feed, segno che i creator sanno mescolare informazione e intrattenimento, mantenendo alta l’attenzione. Molti giovani trovano più attraente apprendere le notizie tramite un video su YouTube o un reel su Instagram piuttosto che leggere un lungo articolo. I dati globali confermano questa preferenza: la maggioranza degli utenti ormai preferisce guardare notizie in formato video anziché leggerle, con la quota di consumo news via video in crescita dal 52% nel 2020 al 65% nel 202518.
Risultato complessivo: fiducia, community, attenzione. Tutto ciò che serve, tutto ciò che manca.
Quindi, cosa devono fare i giornali sui social?
Risposta breve (e solo parzialmente giusta): smettere di dare le notizie gratis.
Risposta lunga (e più complessa): dato che è impossibile non essere presenti sulle piattaforme social, pena una probabile invisibilità mediatica, almeno dovrebbero smettere di vilificare il proprio retaggio storico (o la propria identità di brand) in cambio di una visibilità inconsistente e incoerente con le proprie finalità di business.
Abbiamo visto come, nonostante la crescita dei creator del segmento news e della loro rilevanza, nell’immaginario collettivo la notizia rimanga qualcosa che arriva da istituzioni giornalistiche e parla il loro linguaggio, sia estetico che testuale.
Questo vuol dire che le testate giornalistiche hanno un credito di affidabilità, di terzietà, di serietà, che però stanno erodendo.
Sempre meno persone hanno accesso al giornale in quanto giornale. E sempre meno persone, dunque, possono misurare l’effettiva profondità dell’offerta di approfondimenti, di racconto, e di intrattenimento, del prodotto editoriale giornale. La conoscono, se la conoscono, per sentito dire, per fama.
Il vero punto di contatto con i giornali, con i prodotti degli editori, è sui canali digitali: proprietari, come il sito e l’app, e non, come i social.
Se su questi canali io però vengo in contatto con una minima parte dell’offerta, quella per lo più condivisa con qualsiasi altra testata concorrente, avrò un rapporto con il prodotto editoriale del tutto inconsistente, intercambiabile tra una testata e l’altra.
I giornali hanno sempre fatto affidamento sulle proprie firme per consolidare la propria immagine e il proprio posizionamento (politico ma non solo, anche la qualità della scrittura o delle capacità divulgative, le innovazioni tematiche e linguistiche hanno spesso definito il successo di una testata, basti pensare alla prima Repubblica), sui canali social però, tranne rare eccezioni, i giornali fanno di tutto per appiattire la propria offerta informativa al grado zero del linguaggio giornalistico, al massimo offrendo un volto giovane e una voce fresca a un parco riassunto di una vicenda.
In questo modo nessuna testata riesce davvero a costruire fiducia nel proprio brand, non può far conoscere davvero la qualità del lavoro della propria redazione e quindi risulta semplicemente depositaria temporanea della mia attenzione, ma può essere benissimo sostituita da una concorrente, se dovessero mutare delle condizioni contestuali.
Il piano strategico che vorrei veder implementare dai giornali italiani, prevede un cambio di paradigma in merito al come si guarda ai canali digitali: non un’appendice del prodotto cartaceo (anche se questo è il riflesso che accomuna lettori e giornalisti), ma canali completamente separati, con delle proprie logiche e pipeline produttive.
E soprattutto prevede un ripensamento degli obiettivi strategici da raggiungere sui canali che si presidiano: il numero più alto possibile in termini di interazioni e follower rassicura ma non garantisce nessun tipo di conversione, soprattutto se per ottenerlo ci si trova a diluire in maniera eccessiva la propria identità nei discorsi che vivono in piattaforma o in informazione eccessivamente alimentare.
Il fine della presenza digital di qualsiasi giornale, anche uno generalista come il Corriere, o di gossip come Novella 2000, non è l’essere tempestivi su ogni fatterello, ma creare un dialogo con una comunità stretta (benché magari enorme) di persone che potrebbero, per aderenza ai valori del progetto editoriale o per interesse verticale su un certo argomento, convertire il proprio interesse in un abbonamento a qualcosa che si può leggere (o fruire) soltanto sui canali della testata in questione.
Le azioni che vedrei come “da attivare” nel più breve arco di tempo possibile sono:
Ridurre il peso delle breaking news e dei lanci di articoli e, a tendere, automatizzarle del tutto.
Comunque tenendo presente che soltanto una parte infinitesimale degli utenti lascerà la piattaforma su cui ha trovato questo contenuto per andare ad approfondire sul sito, app o sul prodotto cartaceo. In sostanza, questo tipo di news rimarrà sempre o un regalo o, nella migliore delle ipotesi, un amo per arrivare ad altri contenuti social.Potenziare in maniera cospicua la parte di content creation affidata a una redazione giornalistica che si occupi soltanto dei canali social.
Per avere successo, i canali digitali di un giornale devono essere gestiti con logiche proprie, distinte dalla mera riproposizione del prodotto cartaceo o del sito. Ciò richiede team dedicati: giornalisti e content creator specializzati per ogni piattaforma, capaci di adottare linguaggi e formati nativi di quel medium.
La gestione dei canali social va insomma concepita come un’attività editoriale a sé stante, con proprie riunioni, pipeline e obiettivi, integrata nella strategia generale ma non subordinata all’edizione cartacea.Non servono redazioni enormi, come vedremo in alcune buone pratiche, bastano gruppi di lavoro di 4 o 5 persone (certo, devon essere brave) per fare bene su questi canali.
All’interno di queste redazioni, creare un parco creator che assolva alla funzione che fu delle firme, volti e voci della testata specializzate nello specifico canale di distribuzione di cui si occupano (video per YouTube, audio per podcast, grafiche statiche per altri canali).
Sophia Smith Galer ha proposto: «le testate dovrebbero incoraggiare e supportare giornalisti in veste di creator individuali» sulle piattaforme emergenti, perché gli utenti trovano più facile dialogare con una persona piuttosto che con un account aziendale impersonale.
In sostanza, sui social le persone seguono le persone: perciò i giornali dovrebbero metterci la faccia, valorizzando le proprie risorse umane e competenze in modo autentico e riconoscibile.Puntare molto sull’approfondimento e sull’opinione.
Un altro pilastro strategico dovrebbe essere lo spostare il baricentro dell’offerta social dalla notizia nuda e cruda (che ormai è commodity, disponibile ovunque gratuitamente) verso contenuti a maggiore valore aggiunto: analisi, contesto, ricostruzioni, approfondimenti tematici e commenti autorevoli. Questo non significa ignorare l’attualità, ma presentarla con quel plus che solo una redazione qualificata può dare: spiegando il perché dei fatti, offrendo chiavi di lettura, o indagando aspetti inediti di una vicenda.
I dati indicano che molti lettori oggi evitano le news perché le trovano ripetitive, negative o difficili da capire; di conseguenza c’è fame di contenuti esplicativi e di qualità. Per esempio, il Reuters Institute nota che gli editori devono ripensare non solo cosa coprono, ma come lo coprono, e rilevano che gli “explainer” (contenuti che spiegano il contesto) rappresentano un bisogno chiave non ancora soddisfatto dal panorama attuale.
Dal punto di vista del business, poi, gli approfondimenti e le opinioni originali sono la leva principale per convertire lettori in abbonati: studi sui modelli di abbonamento indicano che ciò che spinge gli utenti a pagare per le news è soprattutto l’accesso a contenuti distintivi e di alta qualità, in particolare analisi e news approfondite. In una ricerca del 2023, ad esempio, tra i cinque fattori principali di valore percepito dai sottoscrittori di news digitali al primo posto figura «l’accesso a notizie e analisi esclusive di elevata qualità».
Questo conferma che per convincere il pubblico a stabilire un legame duraturo (un abbonamento, o comunque una fidelizzazione), il giornale deve far percepire sui suoi canali la profondità e l’autorevolezza del proprio lavoro. Sui social, quindi, meglio condividere il cuore del proprio giornalismo – inchieste, opinioni firmate, rubriche specialistiche, ricostruzioni dettagliate – invece di puntare solo sulla quantità di post. Così facendo, la testata differenzia la propria identità rispetto ai concorrenti e invita il pubblico interessato a “convertirsi” in lettori più assidui sulle proprie piattaforme proprietarie per ottenere il quadro completo.Usare cautela con lo user-generated content (UGC): curarlo o evitarlo.
Una ricerca pubblicata su Journalism Studies ha evidenziato che l’uso di UGC all’interno di notizie giornalistiche riduce la percezione di affidabilità degli articoli.
Nell’esperimento, ai lettori venivano presentati articoli con o senza contenuti tratti dai social (es. screenshot di tweet): ebbene, chi vedeva l’articolo arricchito dallo UGC tendeva a valutarlo meno credibile, anche quando veniva indicato che quelle informazioni erano state verificate dalla redazione. Il calo di fiducia non è enorme ma è comunque significativo, e quel che è peggio l’inclusione di UGC non migliora nessuno degli indicatori di fiducia percepita nei confronti della notizia.
Se proprio si decide di coinvolgere il pubblico (ad esempio chiedendo testimonianze o foto su un fatto di cronaca locale), occorre incorniciare questi contributi in modo editorialmente elevato: contestualizzarli, verificarli accuratamente, e magari pubblicarli accanto all’analisi di un esperto. L’UGC può certamente arricchire la copertura (es. offrendo prospettive dal basso o materiale esclusivo), ma va integrato alle condizioni del giornale, mantenendo gli standard di qualità e terzietà che il pubblico si aspetta da una testata affidabile.
A questi punti andrebbe aggiunta un’appendice che riguarda l’accesso ai contenuti editoriali del giornale su sito e app. Una valutazione attenta di una strategia di paywall (auspicabilmente insormontabile), anche oltranzista come quella del Financial Times, dovrebbe essere alla base di un ripensamento strategico anche social. Ma qui ci limitiamo al campo delle strategie social.
Dunque, è facile implementare questi elementi strategici? No.
Qualcuno ci sta provando? Sì.
Vediamo come.
Quelli che ce la fanno
Gli esempi di testate che stanno facendo un ottimo lavoro sui social, con obiettivi, linguaggi e impegni produttivi diversi, non sono pochi, né poco visibili. Eppure sono poco imitati.
Non mi dilungherò troppo nell’analizzare ogni esempio per verificare la bontà della loro strategia, magari (quasi certamente) la prossima volta, ma mi sembra utile cominciare a farsi un’idea di cosa si muove nel panorama delle news social e quali linguaggi e formati stanno riscuotendo successo portando avanti discorsi di qualità. Consci del fatto che siamo ancora distanti dall’aver risolto il rompicapo.
A mio parere non si può non partire dal già linkatissimo TikTok del Washington Post.

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Non sono i quasi 2 milioni di follower, e gli attuali 103,7 milioni di like ai video, a testimoniare la bontà della strategia del “TikTok Guy”, Dave Jorgenson, ma la stima dei colleghi.
«Parti fondamentali della strategia sono rimaste le stesse dal 2019. I nostri contenuti devono avere l’aspetto e il tono degli altri contenuti su TikTok», dice Jorgenson per spiegare la strategia del canale.
Sembra un modo di declinare quello che suggeriva Katie Drummond, l’idea di trovare il modo di far passare le persone da un TikTok all’altro, però, a mio modo di vedere, c’è una differenza sostanziale: benché ovviamente anche il Washington Post abbia l’obiettivo di raggiungere più utenti sulla piattaforma, mi sembra che l’obiettivo primario rimanga quello di far emergere una visione del mondo precisa attraverso i contenuti social, perché gli utenti la possano abbracciare. Tant’è vero che su questo canale non si trova mai alcun contenuto user generated, pur di sicuro successo come questo.
Poi ci sono racconti video delle notizie come quelli realizzati da Morning Brew (al momento quasi 2 milioni di follower su IG e il podcast business più ascoltato su Spotify), Planet Money (un programma NPR sull’economia, con Jack Corbett, forse il mio content creator preferito in assoluto, anche fuori dal media business) o dal Financial Times.
Di alcuni di questi tentativi mi interessa in particolare il mix di humor e comedy con la copertura giornalistica vera e propria: dove sta scritto che questa non sia una soluzione valida per una testata riconosciuta? Se il prodotto “profilo social” è diverso dal prodotto “giornale” si aprono migliaia di orizzonti e panorami potenzialmente esplorabili. Il tono della comunicazione digitale di Morning Brew, per esempio, per quanto sia sempre coerente in linea di massima, ha gradi di informalità molto diversi in base al prodotto e alla piattaforma su cui si muove.
I podcast poi sono lo spazio d’opinione più importante per i canali digitali dei giornali. Il New York Times ha puntato tanto (forse troppo) sulla sua sezione di opinioni e ha poi disseminato YouTube di canali dedicati a ciascuno dei suoi show (e dunque a ciascun host) e ha raccolto grandissimi numeri in poco tempo. Oltre ad aver prodotto alcuni dei migliori approfondimenti disponibili in chiaro online. Stiamo parlando, per esempio, dell’Ezra Klein Show (362mila iscritti), Hard Fork (39mila iscritti) e di Interesting Times (44 video, 20.400 iscritti), oltre al canale NYTPodcasts.
Qui il panorama è molto ricco, e molto diversificato: The Wolf-Krugman Exchange (Financial Times), Mixed Signals (Semafor), The Intelligence (The Economist), ecc.
I podcast sono anche, comprensibilmente, il prodotto editoriale relativamente più semplice da produrre e più in linea con le professionalità già disponibili in redazione. Per questo molti show producono non solo buoni risultati numerici, ma soprattutto approfondimenti di qualità. Peccato per l’eccessiva frammentazione della distribuzione dei contenuti e della esperienza d’ascolto.
Nel segmentare la propria offerta per un pubblico che può potenzialmente apprezzarla davvero brillano i tentativi del Sole 24Ore, che molto spesso si concentra su aspetti della cronaca politica e industriale meno ovvi e più interessanti per la propria base utenti core, valorizzando così le varie forme di expertise presenti nella propria redazione. Si potrebbe (dovrebbe) lavorare sull’aspetto estetico dei contenuti, ma prendiamo ciò che c’è di buono. Non è un caso che, in termini di abbonamenti digitali, il Sole se la passi piuttosto bene19.
Parlando di come gestire una news: questo video (e tutta la linea editoriale BBC Verify) della BBC secondo me dovrebbe fare scuola. È un tipo di contenuto capace di elevare in maniera significativa la percezione del lavoro giornalistico operato da una testata. Non una semplice news, per altro dubbia, ma un tentativo, onesto, non necessariamente risolutivo, ma approfondito, di venire a capo di una questione.
Mi fermo qui, ma ovviamente ci sarebbe da fare un affondo su tutto il mondo delle media agency (Will, Factanza, Torcha, per dire delle italiane) e dei creator verticali per provare a sondare il terreno delle buone pratiche. Ci torneremo.
Abbiamo finito
Se sei arrivato fin qui, grazie, molto gentile.
Ma se la prossima volta vuoi chiedere a ChatGPT di farti il riassunto, io son felice lo stesso. L’importante è il pensiero.
Se vuoi discutere con me di quel che ho scritto (o del tempo), puoi scrivermi in dm su instagram o mandarmi messaggi minatori sulla mail.
«I media analogici si sono trovati spiazzati di fronte alla tecnologia digitale e hanno colpevolmente impiegato troppo tempo per comprendere la portata del cambiamento. Del resto, era difficile sviluppare una nuova mentalità, adatta al contesto digitale, per aziende abituate a godere di grande potere, notorietà e prestigio. Nel mondo analogico controllavano la risorsa scarsa per eccellenza: lo spazio per la pubblicazione. L’allocazione dei centimetri quadrati di giornale e dei minuti di televisione era decisa dagli editori: il valore di quegli spazi scarsi era tanto più elevato quanto più significativa era la domanda».
Luca De Biase, Il problema della rilevanza del giornalismo, “Tendenze e nuovi scenari per il giornalismo”, Report ODG 2025, p. 11
«Donald Shaw ha formulato l’ipotesi Agendamelding, una rielaborazione della teoria classica, che offre un’interessante prospettiva: le persone tendono a combinare le agende proposte dai media con le proprie agende personali, costruendo visioni del mondo che rispecchiano sia le influenze esterne, che quelle interne alla propria comunità».
Anita Bonetti, Walter Quattrociocchi, La nuova rilevanza del giornalismo nell’era dei social media, “Tendenze e nuovi scenari per il giornalismo”, Report ODG 2025, p. 68
Anche in Italia, cresce la dimestichezza con la personalizzazione delle informazioni. Dati Digital News Report Italia 2025.
Per approfondire, News Platform Fact Sheet.
Avrei da ridire su questa notazione. Gli editori tradizionali sono meglio attrezzati di qualsiasi, pur molto seguito, creator in quanto a disponibilità di banche dati immagini, video e professionalità per editarli. Il punto non è il focus sui contenuti visuali, ma sulla strategia che fa da cornice alla loro produzione e distribuzione.
Da poco, ex Washington Post, passato a lidi molto più redditizi.
Sottolineo qui l’aspetto di possibile incoscienza, non per insipienza dei colleghi e delle colleghe che lavorano ai canali social dei giornali, ma perché credo che una componente non indifferente della comunicazione social sia legata alla necessità di presentare numeri sempre crescenti a responsabili che non hanno davvero idea di cosa tu stia presentando. Nella mia esperienza, il meglio a cui un social media strategist può aspirare è far emergere una strategia più o meno coerente da una pratica a cui il cliente o il responsabile lo costringe.
Reuters Digital News Report 2025, p. 10: «In alcuni paesi, personalità e influencer stanno giocando un ruolo significativo nel plasmare il dibattito pubblico. Un quinto (22%) del nostro campione statunitense afferma di essersi imbattuto in notizie o commenti del popolare podcaster Joe Rogan nella settimana successiva all'insediamento presidenziale, inclusa una quota sproporzionata di giovani uomini. In Francia, il giovane creatore di contenuti Hugo Travers (HugoDécrypte) raggiunge il 22% degli under 35 con contenuti distribuiti principalmente tramite YouTube e TikTok. Anche in molti paesi asiatici, tra cui la Thailandia, i giovani influencer giocano un ruolo significativo».
vedi nota 13